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Domenica 12 Dicembre 2003
CENTRO NAUTICO SANT'ALVISE
Venezia
Questa mattina, 

 Questa mattina, in occasione della "Prima Vogada dell'Anno" organizzata sulle acque del Canal Grande dalla Voga Veneta Mestre, sarà l'ultima volta che i soci delle remiere di Punta San Giobbe partiranno dalle loro vecchie sedi per partecipare ad una manifestazione. 
La data di quest'oggi, quindi, resterà nella storia come l'ultima uscita ufficiale da quei capannoni dell'ex-Macello occupati nel novembre del '77 da un gruppo di vogatori. I primi ad arrivare furono quelli della Settemari e dei Tre Archi, seguiti dalle altre associazioni. Con ore di lavoro centinaia di persone hanno restaurato i capannoni che erano serviti ad ospitare i macellai, e che nel '77 erano locali pieni di immondizie e fatiscenti. La storia del Macello è iniziata negli anni '30 del XIX secolo grazie al progetto dell'ingegnere municipale Giuseppe Salvadori che aveva identificato proprio la zona di San Giobbe come la sede più comoda per lo scarico degli animali. La struttura fu ultimata, grazie anche alla collaborazione dell'architetto Giovan Battista Meduna, nel maggio del 1843 e ha chiuso i battenti nel 1972 per problemi di economicità. Era più conveniente, infatti, costruire a Mestre un nuovo macello dotato di un moderno sistema fognario, che non riadattare la vecchia struttura, inoltre non era più accettabile che le acque attorno a San Giobbe fossero arrossate dal sangue degli animali. Secondo i piani delle amministrazioni comunali di quei temi, i capannoni che per anni avevano ospitati i "becheri" sarebbero dovuti diventare sede di un nuovo ospedale ideato dal grande architetto Le Courbusier. Il progetto, approvato dall'amministrazione ospedaliera, non venne mai realizzato sia per problemi economici che per la mutata politica sanitaria. Dal '77 fino ad oggi, questi storici edifici, sono stati per anni la casa di molte società di voga e ora diventeranno sede dell'università. Dopo venticinque anni di "abusivismo", i soci delle remiere di Punta San Giobbe fanno le valige per trasferirsi nella nuova sede di Sant'Alvise, ben consci che, se non ci fosse stato il loro volontariato, l'università adesso rileverebbe solo un mucchio di macerie.

Francesca Scarpa

 

 

 

 

 

 

Remiere di San Giobbe, si volta pagina
Dopo 25 anni tutti i sodalizi lasciano la vecchia sede dell’ex Macello per recarsi nel nuovo cantiere di Sant’Alvise

«Sono in montagna e mi spiace di non assistere all'ultima uscita delle barche ammiraglie dalle nostre sedi storiche, ma a dire il vero per me sarebbe come assistere ad un funerale». 

Sono parole che escono dal cuore quelle dette al telefono da Alfredo Borsato, socio fondatore e primo presidente della Settemari, la società di voga che occupò l'area dell'ex-Macello, insieme alla remiera Tre Archi, nell'ormai lontano 2 novembre 1977. 
«Quel giorno di pioggia - continua Borsato - un gondolino a due remi della Settemari e una barca dei Tre Archi si sono fermate per la prima volta a Punta San Giobbe dando il via ad un'avventura durata venticinque anni. 
E' stata un'opera di bonifica straordinaria di un'area che stava andando in rovina. Migliaia le ore di lavoro dei molti volontari, prima della Settemari e dei Tre Archi, poi anche delle altre remiere che sono nate qualche mese dopo di noi. 
Ricordo l'incontro con il senatore Gianquinto, allora assessore al Patrimonio, che pur non potendo rendere legale la nostra presenza nell'area ci ha permesso di rimanere finché non fosse stata trovata un'altra sistemazione. 
Una situazione precaria durata un quarto di secolo, un sogno finito quando è arrivata l'università. 
Certo non possiamo avanzare nessuna recriminazione, noi siamo sempre stati abusivi, però in tal giorno devo ricordare che nessuna amministrazione comunale, sia di destra che di sinistra, ci ha mai aiutato a regolarizzare la nostra posizione. Abbiamo cercato di firmare una convenzione con il Comune e invece hanno sempre menato il can per l'aia. 
Secondo il nostro parere Punta San Giobbe doveva continuare ad avere una vocazione nautica, rimanere un punto di contatto tra Mestre e Venezia. L'università è stata più forte, ha dimostrato di avere maggiore voce in capitolo delle remiere. Ormai è andata così, ma la nostalgia è grande».

«Per comprare le nostre barche - spiega Antonio 'Peter' Bredoli, socio fondatore della Settemari - raccoglievamo i soldi organizzando delle feste. Dopo qualche anno siamo riusciti a far costruire al mitico Nino Giuponi la diesona, una barca che è un vero gioiello. 
Ricordo la fatica e le ore passate a pulire e a riparare i capannoni del Macello, abbandonati ormai da molti anni. Se non fosse stato per noi la zona sarebbe stata lasciata in mano ai drogati. 
La Marisa, nostra 'mascotte' e proprietaria del bacaro ai piedi del ponte dei Tre Archi, ha sempre benedetto il giorno in cui abbiamo occupato l'area».Dello stesso parere è il cantante Umberto Da Preda, socio simpatizzante della Settemari e uno dei protagonisti dell'avventura del Macello: «Se le remiere non avessero preso possesso di quei capannoni ora in quella zona ci sarebbero pantegane grandi come vitelli! Ho contribuito anch'io, nel mio piccolo, al restauro di una struttura che per venticinque anni ha ospitato appassionati di voga e di tradizioni veneziane. Non potrò mai dimenticare le regate, le feste, le canzoni. Inizia un nuovo capitolo, ma non sarà più la stessa cosa. 
Ora arriva l'università, eppure di dottori disoccupati ne è pieno il mondo!». 
«E' difficile, ma dobbiamo riuscire a guardare con ottimismo al futuro perché tutto quello che abbiamo fatto finora non vada perso - dice Sergio Da Preda, cugino di Umberto e socio fondatore della remiera Tre Archi - la speranza è che nella nuova sede le cose migliorino, che ci sia un rilancio della voga alla veneta. 
I giovani non vogliono più fare fatica. 
Anch'io ripenso spesso a venticinque anni fa, alla nostra gioventù, alla nostra sfida, al signor Rosa Salva che grazie alla Vogalonga ha risvegliato l'interesse verso la voga. Lo sapevamo da dieci anni che dovevamo andare via, era ormai inevitabile».

Una posizione, questa, condivisa dagli attuali presidenti delle varie società che però vedono il futuro in maniera molto diversa. «A mio parere bisogna diventare un'unica società - sottolinea Ferruccio Cristante, presidente della Tre Archi - bisogna imparare ad andare d'accordo e poi dimenticare i diversi colori per arrivare a vestire un'unica maglia». 

Tra gli unionisti oltre alla Tre Archi c'è pure la Canottieri Cannaregio e S. Giacomo dell'Orio, tutti gli altri invece sembrano intendere la nuova sede come un simpatico e colorato condominio: «Staremo insieme e collaboreremo - nota Pierluigi 'Pigi' Borella - mantenendo però i nostri colori. Si deve guardare al futuro con speranza, anche se siamo ben consci che l'avventura degli ultimi venticinque anni sarà irripetibile». «Lasciamo con un sentimento di rammarico - dice Renato Alberini, presidente dei Nomboli - ma siamo contenti di andare in una struttura più accogliente, ognuno però deve continuare a mantenere la sua indipendenza». 
Della stessa opinione è Gianni Rizzato della Serenissima: «Le nostre società sono molto diverse l'una dall'altra, anche se abbiamo la stessa storia. Ogni associazione deve essere lasciata libera di scegliere se restare indipendente o unirsi con gli altri».

Insieme o divisi, comunque, si continuerà a vogare, ricordando anche nella nuova sede quel gruppo di appassionati di tradizioni veneziane che in un freddo giorno di novembre del '77, occupando una parte di Venezia abbandonata, hanno dato il via ad una storia d'amicizia. 
Non saranno dimenticate le cene in fondamenta, le regate e le feste. 
Ma era davvero impossibile far convivere le società remiere con l'università? Una domanda, questa, che si pongono da tempo i molti soci di S. Giobbe e che ormai resterà senza una risposta.

Francesca Scarpa

Il presidente Cristante: «La nuova sede è un passo in avanti, l'occasione per rinnovarci»
Venezia

È toccato a Gianfranco "Elvio" Cristante, tra i soci fondatori dell'associazione Tre Archi e componente del "commando" che per primo occupò i capannoni dell'ex Macello per farne il covo delle remiere di Cannaregio, traghettare le società nella nuova sede. 

Un cerchio si è chiuso: da presidente dell'associazione delle remiere, Cristante ha vissuto il lungo periodo del completamento della nuova sede e del trasloco ormai quasi compiuto, tra gli inevitabili rimpianti e lo sguardo necessariamente rivolto al futuro. Fronteggiando gli immancabili mugugni e le difficoltà dell'ultima ora. «Eh già, - sospira - me so tolto 'na bela gata, ma la xè 'ndada! Domenica è davvero una data storica: di fatto ci stiamo trasferendo, abbiamo già portato nel nuovo capannone 60 delle 143 nostre barche, e sarà l'ultima volta che una manifestazione acquea si svolgerà partendo dal Macello».

Qualche lacrimuccia?Rimpianti?
«Personalmente non ne ho, se non quello che vorrei avere 25 anni di meno! 
Certo, l'affetto e l'attaccamento alla nostra vecchia struttura li portiamo nel cuore, non si possono dimenticare facilmente le oltre 42 mila ore di lavoro volontario che abbiamo impegnato per rendere accoglienti i capannoni diroccati che in quegli anni lontani avevamo occupato anche grazie a una bonaria disponibilità dell'amministrazione comunale».

Con che animo avete accettato la decisione del Comune di spostarvi dall'ex Macello? «Quando lo occupammo, portammo una copia delle chiavi dei lucchetti all'allora assessore al Patrimonio, Giobatta Gianquinto. E poi ci siamo sempre impegnati a lasciare gli spazi qualora fossero serviti alla città, sia se ci avessero dato una sede alternativa, sia se ciò non fosse avvenuto. Pubblicamente avevamo addirittura detto che in quest'ultimo caso saremmo stati disposti a fare un rogo delle nostre barche, e abbiamo tenuto fede ai nostri impegni. Certo che mai avremmo permesso, però, che le strutture del Macello decadessero di nuovo».

Come giudica la nuova sede: migliore o peggiore della vecchia?«Per me, siamo andati in meglio, anche se capisco che molti, magari abituati a considerare i capannoni come la loro casetta, si troveranno a disagio. Qui comportarsi come prima sarà più difficile, c'è la palestra, pulizia, uffici, docce calde, comfort, c'è un decoro da mantenere, anche perché speriamo di richiamare tanta gioventù, ma credo che tutti abbiano compreso che il trasferimento sarà un passo in avanti».

Che programmi avete per il futuro? «Noi puntiamo al futuro! I 600 soci di oggi sono la storia, ma a costo di fare una dichiarazione impopolare devo dire che abbiamo pochi giovani, e che invece puntiamo su di loro. 
Noi abbiamo fatto il nostro tempo, ma bisogna guardare avanti, vogliamo portare anche a Cannaregio la voga all'inglese, la canoa, diventare un punto di riferimento per la città».

Il nuovo specchio acqueo vi aiuterà o vi ostacolerà? Forse al Macello stavate più tranquilli!
«Sì e no. È vero che davanti non c'era una vera via di comunicazione, ma due metri più in là c'è il canale di San Secondo, che è un'autostrada.
È stata una grossa vittoria mia e delle remiere ottenere nella nuova sede una
barriera frangionde sperimentale, davvero meravigliosa, che ci difende notevolmente e che ci permetterà non solo di proteggere le barche nella darsena, ma anche di consentire al pubblico di seguire meglio le nostre manifestazioni, dato che è interamente praticabile e protetta da un parapetto. Due telecamere collegate con Thetis controlleranno sia come risponde la barriera alle onde, sia i trasgressori».

La nuova sede vi spingerà alla fine a creare una società unica? 
«Non lo so, siamo metà e metà tra chi, come me, ci crede e ci spera, e chi ha legittime resistenze. 
Credo che in futuro si farà, anche se si potranno conservare gli archivi, le maglie, i colori delle barche, e nessuno perderà identità. 
Ora rispettiamo la volontà delle società, che preferiscono mantenere la loro autonomia, ma credo che l'umiltà necessaria per rispettare maggiormente le regole della convivenza, già così difficili anche tra marito e moglie, la collaborazione per le manifestazioni comuni e la convivenza quotidiana tra tutti finiranno per creare le condizioni per uno spirito unitario».

Silvio Testa

 

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