Venezia
Questa mattina,
Questa mattina, in occasione della "Prima
Vogada dell'Anno" organizzata sulle acque del Canal Grande dalla Voga
Veneta Mestre, sarà l'ultima volta che i soci delle remiere di Punta
San Giobbe partiranno dalle loro vecchie sedi per partecipare ad una
manifestazione.
La data di quest'oggi, quindi, resterà nella storia come l'ultima uscita
ufficiale da quei capannoni dell'ex-Macello occupati nel novembre del '77
da un gruppo di vogatori. I primi ad arrivare furono quelli della
Settemari e dei Tre Archi, seguiti dalle altre associazioni. Con ore di
lavoro centinaia di persone hanno restaurato i capannoni che erano serviti
ad ospitare i macellai, e che nel '77 erano locali pieni di immondizie e
fatiscenti. La storia del Macello è iniziata negli anni '30 del XIX
secolo grazie al progetto dell'ingegnere municipale Giuseppe Salvadori che
aveva identificato proprio la zona di San Giobbe come la sede più comoda
per lo scarico degli animali. La struttura fu ultimata, grazie anche alla
collaborazione dell'architetto Giovan Battista Meduna, nel maggio del 1843
e ha chiuso i battenti nel 1972 per problemi di economicità. Era più
conveniente, infatti, costruire a Mestre un nuovo macello dotato di un
moderno sistema fognario, che non riadattare la vecchia struttura, inoltre
non era più accettabile che le acque attorno a San Giobbe fossero
arrossate dal sangue degli animali. Secondo i piani delle amministrazioni
comunali di quei temi, i capannoni che per anni avevano ospitati i "becheri"
sarebbero dovuti diventare sede di un nuovo ospedale ideato dal grande
architetto Le Courbusier. Il progetto, approvato dall'amministrazione
ospedaliera, non venne mai realizzato sia per problemi economici che per
la mutata politica sanitaria. Dal '77 fino ad oggi, questi storici
edifici, sono stati per anni la casa di molte società di voga e ora
diventeranno sede dell'università. Dopo venticinque anni di
"abusivismo", i soci delle remiere di Punta San Giobbe fanno le
valige per trasferirsi nella nuova sede di Sant'Alvise, ben consci che, se
non ci fosse stato il loro volontariato, l'università adesso rileverebbe
solo un mucchio di macerie.
Francesca Scarpa
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Remiere
di San Giobbe, si volta pagina |
Dopo
25 anni tutti i sodalizi lasciano la vecchia sede dell’ex Macello
per recarsi nel nuovo cantiere di Sant’Alvise |
«Sono in montagna e mi spiace di non
assistere all'ultima uscita delle barche ammiraglie dalle nostre sedi
storiche, ma a dire il vero per me sarebbe come assistere ad un funerale».
Sono parole che escono dal cuore quelle
dette al telefono da Alfredo Borsato,
socio fondatore e primo presidente della Settemari, la società di
voga che occupò l'area dell'ex-Macello, insieme alla remiera Tre Archi,
nell'ormai lontano 2 novembre 1977.
«Quel giorno di pioggia - continua Borsato - un gondolino a due remi
della Settemari e una barca dei Tre Archi si sono fermate per la prima
volta a Punta San Giobbe dando il via ad un'avventura durata venticinque
anni.
E' stata un'opera di bonifica straordinaria di un'area che stava andando
in rovina. Migliaia le ore di lavoro dei molti volontari, prima della
Settemari e dei Tre Archi, poi anche delle altre remiere che sono nate
qualche mese dopo di noi.
Ricordo l'incontro con il senatore Gianquinto, allora assessore al
Patrimonio, che pur non potendo rendere legale la nostra presenza
nell'area ci ha permesso di rimanere finché non fosse stata trovata
un'altra sistemazione.
Una situazione precaria durata un quarto di secolo, un sogno finito quando
è arrivata l'università.
Certo non possiamo avanzare nessuna recriminazione, noi siamo sempre stati
abusivi, però in tal giorno devo ricordare che nessuna amministrazione
comunale, sia di destra che di sinistra, ci ha mai aiutato a regolarizzare
la nostra posizione. Abbiamo cercato di firmare una convenzione con il
Comune e invece hanno sempre menato il can per l'aia.
Secondo il nostro parere Punta San Giobbe doveva continuare ad avere una
vocazione nautica, rimanere un punto di contatto tra Mestre e Venezia.
L'università è stata più forte, ha dimostrato di avere maggiore voce in
capitolo delle remiere. Ormai è andata così, ma la nostalgia è grande».
«Per comprare le nostre barche - spiega Antonio
'Peter' Bredoli, socio fondatore della Settemari -
raccoglievamo i soldi organizzando delle feste. Dopo qualche anno siamo
riusciti a far costruire al mitico Nino Giuponi la diesona, una barca che
è un vero gioiello.
Ricordo la fatica e le ore passate a pulire e a riparare i capannoni del
Macello, abbandonati ormai da molti anni. Se non fosse stato per noi la
zona sarebbe stata lasciata in mano ai drogati.
La Marisa, nostra 'mascotte' e proprietaria del bacaro ai piedi del
ponte dei Tre Archi, ha sempre benedetto il giorno in cui abbiamo occupato
l'area».Dello stesso parere è il cantante Umberto Da Preda, socio
simpatizzante della Settemari e uno dei protagonisti dell'avventura del
Macello: «Se le remiere non avessero preso possesso di quei capannoni ora
in quella zona ci sarebbero pantegane grandi come vitelli! Ho contribuito
anch'io, nel mio piccolo, al restauro di una struttura che per venticinque
anni ha ospitato appassionati di voga e di tradizioni veneziane. Non potrò
mai dimenticare le regate, le feste, le canzoni. Inizia un nuovo capitolo,
ma non sarà più la stessa cosa.
Ora arriva l'università, eppure di dottori disoccupati ne è pieno il
mondo!».
«E' difficile, ma dobbiamo riuscire a guardare con ottimismo al futuro
perché tutto quello che abbiamo fatto finora non vada perso - dice Sergio
Da Preda, cugino di Umberto e socio fondatore della remiera Tre Archi
- la speranza è che nella nuova sede le cose migliorino, che ci sia un
rilancio della voga alla veneta.
I giovani non vogliono più fare fatica.
Anch'io ripenso spesso a venticinque anni fa, alla nostra gioventù, alla
nostra sfida, al signor Rosa Salva che grazie alla Vogalonga ha
risvegliato l'interesse verso la voga. Lo sapevamo da dieci anni che
dovevamo andare via, era ormai inevitabile».
Una posizione, questa, condivisa dagli
attuali presidenti delle varie società che però vedono il futuro in
maniera molto diversa. «A mio parere bisogna diventare un'unica società
- sottolinea Ferruccio Cristante, presidente della Tre Archi -
bisogna imparare ad andare d'accordo e poi dimenticare i diversi colori
per arrivare a vestire un'unica maglia».
Tra gli unionisti oltre alla Tre Archi c'è
pure la Canottieri Cannaregio e S. Giacomo dell'Orio, tutti
gli altri invece sembrano intendere la nuova sede come un simpatico e
colorato condominio: «Staremo insieme e collaboreremo - nota Pierluigi
'Pigi' Borella - mantenendo però i nostri colori. Si deve guardare al
futuro con speranza, anche se siamo ben consci che l'avventura degli
ultimi venticinque anni sarà irripetibile». «Lasciamo con un sentimento
di rammarico - dice Renato Alberini, presidente dei Nomboli
- ma siamo contenti di andare in una struttura più accogliente, ognuno
però deve continuare a mantenere la sua indipendenza».
Della stessa opinione è Gianni Rizzato della Serenissima:
«Le nostre società sono molto diverse l'una dall'altra, anche se abbiamo
la stessa storia. Ogni associazione deve essere lasciata libera di
scegliere se restare indipendente o unirsi con gli altri».
Insieme o divisi, comunque, si continuerà
a vogare, ricordando anche nella nuova sede quel gruppo di appassionati di
tradizioni veneziane che in un freddo giorno di novembre del '77,
occupando una parte di Venezia abbandonata, hanno dato il via ad una
storia d'amicizia.
Non saranno dimenticate le cene in fondamenta, le regate e le feste.
Ma era davvero impossibile far convivere le società remiere con
l'università? Una domanda, questa, che si pongono da tempo i molti soci
di S. Giobbe e che ormai resterà senza una risposta.
Francesca Scarpa |
Il
presidente Cristante: «La nuova sede è un passo in avanti,
l'occasione per rinnovarci» |
Venezia
È toccato a Gianfranco "Elvio" Cristante, tra i
soci fondatori dell'associazione Tre Archi e componente del
"commando" che per primo occupò i capannoni dell'ex
Macello per farne il covo delle remiere di Cannaregio, traghettare
le società nella nuova sede.
Un cerchio si è chiuso: da presidente dell'associazione delle
remiere, Cristante ha vissuto il lungo periodo del completamento
della nuova sede e del trasloco ormai quasi compiuto, tra gli
inevitabili rimpianti e lo sguardo necessariamente rivolto al
futuro. Fronteggiando gli immancabili mugugni e le difficoltà
dell'ultima ora. «Eh già, - sospira - me so tolto 'na bela gata,
ma la xè 'ndada! Domenica è davvero una data storica: di fatto ci
stiamo trasferendo, abbiamo già portato nel nuovo capannone 60
delle 143 nostre barche, e sarà l'ultima volta che una
manifestazione acquea si svolgerà partendo dal Macello».
Qualche lacrimuccia?Rimpianti?
«Personalmente non ne ho, se non quello che vorrei avere 25 anni di
meno!
Certo, l'affetto e l'attaccamento alla nostra vecchia struttura li
portiamo nel cuore, non si possono dimenticare facilmente le oltre
42 mila ore di lavoro volontario che abbiamo impegnato per rendere
accoglienti i capannoni diroccati che in quegli anni lontani avevamo
occupato anche grazie a una bonaria disponibilità
dell'amministrazione comunale».
Con che animo avete accettato la decisione del Comune di
spostarvi dall'ex Macello? «Quando lo occupammo, portammo una copia
delle chiavi dei lucchetti all'allora assessore al Patrimonio,
Giobatta Gianquinto. E poi ci siamo sempre impegnati a lasciare gli
spazi qualora fossero serviti alla città, sia se ci avessero dato
una sede alternativa, sia se ciò non fosse avvenuto. Pubblicamente
avevamo addirittura detto che in quest'ultimo caso saremmo stati
disposti a fare un rogo delle nostre barche, e abbiamo tenuto fede
ai nostri impegni. Certo che mai avremmo permesso, però, che le
strutture del Macello decadessero di nuovo».
Come giudica la nuova sede: migliore o peggiore della vecchia?«Per
me, siamo andati in meglio, anche se capisco che molti, magari
abituati a considerare i capannoni come la loro casetta, si
troveranno a disagio. Qui comportarsi come prima sarà più
difficile, c'è la palestra, pulizia, uffici, docce calde, comfort,
c'è un decoro da mantenere, anche perché speriamo di richiamare
tanta gioventù, ma credo che tutti abbiano compreso che il
trasferimento sarà un passo in avanti».
Che programmi avete per il futuro? «Noi puntiamo al futuro! I
600 soci di oggi sono la storia, ma a costo di fare una
dichiarazione impopolare devo dire che abbiamo pochi giovani, e che
invece puntiamo su di loro.
Noi abbiamo fatto il nostro tempo, ma bisogna guardare avanti,
vogliamo portare anche a Cannaregio la voga all'inglese, la canoa,
diventare un punto di riferimento per la città».
Il nuovo specchio acqueo vi aiuterà o vi ostacolerà? Forse al
Macello stavate più tranquilli!
«Sì e no. È vero che davanti non c'era una vera via di
comunicazione, ma due metri più in là c'è il canale di San
Secondo, che è un'autostrada.
È stata una grossa vittoria mia e delle remiere ottenere nella
nuova sede una barriera
frangionde sperimentale,
davvero meravigliosa, che ci difende notevolmente e che ci permetterà
non solo di proteggere le barche nella darsena, ma anche di
consentire al pubblico di seguire meglio le nostre manifestazioni,
dato che è interamente praticabile e protetta da un parapetto. Due
telecamere collegate con Thetis controlleranno sia come risponde la
barriera alle onde, sia i trasgressori».
La nuova sede vi spingerà alla fine a creare una società
unica?
«Non lo so, siamo metà e metà tra chi, come me, ci crede e ci
spera, e chi ha legittime resistenze.
Credo che in futuro si farà, anche se si potranno conservare gli
archivi, le maglie, i colori delle barche, e nessuno perderà
identità.
Ora rispettiamo la volontà delle società, che preferiscono
mantenere la loro autonomia, ma credo che l'umiltà necessaria per
rispettare maggiormente le regole della convivenza, già così
difficili anche tra marito e moglie, la collaborazione per le
manifestazioni comuni e la convivenza quotidiana tra tutti finiranno
per creare le condizioni per uno spirito unitario».
Silvio Testa
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