Reza
vive in Gronda, a forte Rossarol. Ha 17 anni e viene dall'Afganistan.
La storia la racconta Anna Sandri su "La Nuova".
«...quando sono arrivato e ho visto
l’acqua, la gente, ho sentito che il viaggio era finito e ho
amato questa città in un modo che non posso spiegare con le
parole...»
|
|
L’ex
Forte Rossarol di via Pezzana a Tessera è Gronda lagunare,
luogo protetto dove si vedono volare gli aironi e negli stagni
nuotano le tartarughe.
|
DOMENICA,
09 DICEMBRE 2007 |
LA COMUNITA’
Sulla Gronda
dove la vita ricomincia
Pranzare un giorno
con una famiglia sarebbe un dono
MESTRE. L’ex
Forte Rossarol di via Pezzana a Tessera è Gronda lagunare, luogo
protetto dove si vedono volare gli aironi e negli stagni nuotano le
tartarughe. E’ un luogo protetto in ogni senso perché qui, grazie
all’impegno del Centro Don Milani di don Franco De Pieri, da molti
anni si lavora per restituire alla vita gli alcolisti, i «tossici»
da cocaina e da eroina, per i quali vengono applicati severi
protocolli di cura. Nelle baracche rimesse a nuovo, vengono ospitati i
minori non accompagnati, spesso provenienti da paesi dell’est
europeo; e qui vi sono anche i minorenni profughi che richiedono asilo
politico. Arrivano attraverso i Servizi del Comune, inseriti in
programmi di studio, avviati alla formazione professionale. Oggi ci
sono 25 ragazzi afghani di etnia hazara e un pashtun; ma vi sono anche
liberiani, congolesi, un giovane del Sudan. Vivono in perfetta
autonomia, si alternano in turni per i compiti comuni, imparano
l’italiano, si rieducano alla convivenza lontana dalle violenze.
La comunità è presieduta da Marco Zamarchi, il responsabile è
Renato Mingardi.
Ci sono i volontari, e non bastano mai. Ogni apporto sarebbe utile:
insegnanti, artigiani magari in pensione che potessero insegnare
qualcosa a questi ragazzi. La comunità vuole aprirsi alla città, e
garantisce per i suoi giovani ospiti: anche un invito a pranzo in una
famiglia sarebbe per loro un regalo inestimabile.
IL
PROFUGO
Lacero e solo quel giorno di maggio. Un esodo silenzioso che continua
da oltre un anno
MESTRE. Lo scorso
anno, esattamente di questi giorni, un gruppo di 5 ragazzini seminudi
e denutriti venne soccorso e salvato dalla Polifer di Santa Lucia.
Vagavano sui binari nella notte sotto zero. La loro storia sconvolse
l’Italia intera: erano arrivati a piedi e con mezzi di fortuna
dall’Afghanistan. Di quei 5 ragazzi non si è mai saputo nulla di più,
protetti dai Servizi sociali; ma oggi si sa che erano solo le
avanguardie di un fenomeno diffuso, e gli arrivi (con meno clamore ma
con allarmante frequenza) si sono ripetuti.
Il 29 maggio, da un treno proveniente da Trieste, senza nulla in
tasca se non qualche biscotto secco, è sceso un ragazzo dai capelli
neri, dagli occhi scuri di taglio obliquo. Si chiama Raza.
Ugualmente lacero e sporco, è rimasto per tre giorni nei
dintorni della stazione di Venezia, solo e spaventato. Se sei povero,
sporco e disperato, scrive Frank McCourt, non aspettarti mai qualcosa
da un ricco: solo un povero un po’ meno disperato di te potrà
aiutarti. Un cingalese ha avuto pietà e interesse per lui, gli ha
teso la mano, lo ha condotto in Questura. Quel giorno è iniziata la
sua seconda vita.
Raza viene dall’Afghanistan. Oggi ha 17 anni, parla cinque
lingue tra cui l’italiano che in pochi mesi ha appreso alla
perfezione. E’ ospite del Centro Don Milano all’ex Forte Rossarol
di Tessera, con altri 25 ragazzi come lui.
Questa è la sua storia.
Raza ha 17 anni e
vive nel centro Don Milani all’ex Forte Rossarol
«Il mio viaggio
nel buio verso la vita» Dall’Afghanistan
a Venezia: quattro anni di inferno e cammino
Sono partito con la mamma e tre fratelli dopo la morte di mio papà al
villaggio
ANNA
SANDRI
«Il mio paese era nella regione di Ghazni, c’erano cento case in
una valle in mezzo alle montagne e intorno non c’era niente. La
scuola si faceva a casa. Noi siamo hazara. Mio padre era tipografo,
stampava libri, scriveva in un giornale: il nostro studio per lui era
importante. Tu farai l’ingegnere, diceva a mio fratello maggiore. A
me diceva sempre: tu sarai dottore».
Non è andata così, Raza.
«Nel 2003 mio padre è morto e noi siamo scappati. Mia mamma,
il mio fratello maggiore, io, i due fratelli più piccoli. Tutti
maschi. Io avevo 13 anni, non sapevo dove stavamo andando, io facevo
come volevano la mamma e mio fratello. Penso che la mamma abbia
raccolto tutti i soldi che c’erano».
Cos’hai portato con te?
«Solo i vestiti. Se devi decidere se portare una cosa o un
maglione che ti scalda la notte, porti il maglione. Siamo andati verso
il Pakistan».
Come avete passato il confine?
«Io non lo so. Non potevo guardare, dovevo solo stare nascosto
con i miei fratellini, non si doveva sentire il respiro. Tutte le
volte che partivamo era sempre buio».
Il Pakistan.
«Ci siamo rimasti otto o nove mesi. Era molto difficile.
Trovare un lavoro era impossibile, non avevano documenti. Per questo
siamo partiti di nuovo. Ancora di notte, sempre con il buio. A piedi,
sul carro, con il cavallo. Mi ricordo le montagne. Stavamo andando in
Iran: la mamma aveva un indirizzo dove chiedere aiuto».
Ci siete arrivati.
«Non so come ma sì, ci siamo arrivati. Era una piccola casa, e
mio fratello aveva un lavoro che serviva per farci mangiare tutti. La
mamma forse lavorava, perché era spesso fuori casa; io stavo con i
miei fratelli più piccoli. Poco lontano abitava un signore di Cipro.
Mi ha insegnato l’inglese, diceva che mi poteva servire in futuro.
Ho imparato anche il persiano, lo parlo abbastanza bene».
Quanto sei rimasto, in Iran?
«Due anni e mezzo. E’ stato lì che la mamma è morta, e
siamo rimasti solo noi fratelli. Abbas usciva tutti i giorni per
andare a lavorare e un giorno non è più tornato. Lo abbiamo
aspettato, ma poi abbiamo saputo che altri ragazzi afghani come lui
erano spariti quel giorno stesso».
Il più grande, da quel giorno, sei
diventato tu.
«Vicino alla nostra casa vivevano persone molto buone. Mi hanno
detto che dovevo andare. I due bambini potevano restare con loro e
sarebbero stati sicuri».
Non sei partito solo.
«No. C’erano altre persone che camminavano con me e c’erano
persone che ci prendevano e ci dicevano dove e quando andare. Di
giorno stavamo nascosti, appena veniva buio si partiva. Con un mezzo
qualche volta, ma soprattutto a piedi. In un piccolo sacco avevo
qualche vestito, addosso le uniche cose che sarei morto piuttosto di
lasciare: il giubbotto di Abbas e una sua fotografia. Li ho qui con
me, li avrò con me per sempre».
Dall’Iran alla Turchia.
«Sempre la notte, sempre sulle montagne».
Cos’hai visto in quelle notti,
Raza?
«Non dirò mai le cose che ho visto: non devo dirle, devo
dimenticarle. Non ci sono le parole in nessuna lingua del mondo per
poterle dire».
Era la sopravvivenza.
«Non le dirò mai».
Raza, come ha potuto resistere?
«Vicino a me vedevo la mamma, è stata sempre con me».
Come hai potuto restare un uomo?
«Camminavo, camminavo e basta. Non volevo vedere quello che
succedeva intorno. In quelle notti ho deciso che nella mia vita io
avrei soltanto amato. Il mio destino era camminare, l’amore l’ho
scelto io».
Da un mercante di uomini
all’altro, dopo la Turchia è arrivata la Grecia.
«Dalla Turchia alla Grecia ci siamo andati sul mare. Hanno
detto, queste sono le barche, andate. Le abbiamo spinte noi, eravamo
otto, come si dice, con i remi».
Dalla Grecia all’Italia.
«Quando siamo arrivati in Grecia ci hanno divisi. In quattro
siamo finiti in fondo a un grande camion, non so cosa portava, sulle
casse c’era scritto Germany. Ci hanno dato biscotti e ci hanno
detto, state lì dentro 36 ore, mangiate solo se avete fame».
Trentasei ore dopo, hanno aperto i
portelloni.
«Ci siamo divisi subito. In mano avevo un pezzo di carta con
scritto Trieste. Qualche biscotto, nessun denaro, però avevo la
fortuna in tasca. Un uomo mi ha detto: sali sul treno, quello, e vai a
Venezia».
Non avevi biglietto.
«Nessuno mi ha chiesto il biglietto. Ero molto sporco, tutti
stavano lontani da me. Quando il treno si è proprio fermato sono
scesi tutti e anch’io. C’era scritto Venezia, sono uscito dalla
stazione. Era il 29 maggio».
Cos’hai visto?
«Il sogno della mia vita è stare per sempre a Venezia: quando
sono arrivato e ho visto l’acqua, la gente, ho sentito che il
viaggio era finito e ho amato questa città in un modo che non posso
spiegare con le parole».
Cosa hai fatto?
«Non sapevo cosa fare. Per tre giorni sono rimasto lì intorno.
Un giorno ho trovato uno zainetto buttato in un cestino, l’ho preso
e ci ho messo le mie cose. Ma nessuno mi vedeva, i biscotti erano
quasi finiti e io non sapevo cosa fare. Il terzo giorno mi è venuto
accanto un cingalese: mi ha chiesto se avevo bisogno di aiuto, e mi ha
accompagnato in Questura. La polizia mi ha mandato con l’autobus
numero 12 al Comune, che mi ha mandato alla comunità».
Come vivi oggi?
«La mattina studio. Il pomeriggio faccio dei lavori. Mi
piacerebbe tanto nuotare: ero bravo. E leggo la poesia: me l’hanno
insegnata i miei genitori».
Non esci mai?
«Qualche volta. Ma non è facile. Io sono diverso, sono solo.
Vedo i ragazzi della mia età, vorrei parlare con loro ma non so cosa
dire. Vorrei un amico, per uscire, per parlare un po’, magari andare
al cinema: deve essere bellissimo avere un amico, ma non so come si fa».
Cosa farai da grande?
«Vorrei studiare Biologia e diventare dottore come voleva mio
padre, ma non ho i soldi. Devo lavorare: allora spero di farlo in un
albergo, visto che parlo cinque lingue».
E se qualcuno ti aiutasse per
continuare gli studi?
«Questo è un sogno».
Tornerai in Afghanistan?
«Mai più».
Ciò che Raza non dice, non a chi incontra per la prima volta,
è ciò che ha confessato a chi da mesi gli è vicino. E’ questo.
Suo padre, l’uomo che gli ha insegnato l’educazione che lo
fa sembrare uscito da un college e non da un inferno, è stato ucciso
dai talebani. Sua madre, la donna che aveva mani leggere come le sue e
amava la poesia, è morta di stenti, perché nella fuga non c’era
abbastanza per tutti. Suo fratello Abbas è stato deportato in
Afghanistan dopo una retata, assieme ad altri connazionali. Sono stati
tutti uccisi dai talebani. I suoi fratellini dovrebbero essere in
salvo presso la famiglia che li ha accolti: spera di poterli
riabbracciare un giorno.
|