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Silis, annali di civiltà dell’acqua, 1, 1999 –
pp.104-111 «Il
viaggiatore leggero» a cura di Maria
de Fanis e Caterina Fiorentini Silis, annali di civiltà dell’acqua, 1, 1999 Questa rubrica è una parentesi che si snoda come il
sentiero di un viandante Lo scopo è quello di profilare una possibilità di
narrazione densa e spessa del variegato Le
acque e il porto di Mestre nel Novecento La
città di Mestre nell'entroterra veneziano è uno dei casi più controversi del
processo di modernizzazione, un'area conurbata che dagli inizi del secolo fino
agli anni ottanta ha conosciuto un'enorme crescita demografica alla quale ha
fatto riscontro una decuplicazione della popolazione, un luogo il cui nucleo
abitativo, che si raggruppava attorno al centro storico, si è dilatato a
dismisura fino a inglobare dei territori che nel passato appartenevano ad altre
amministrazioni comunali. La forte espansione demografica, conseguenza di flussi
migratori provenienti dalle aree rurali circostanti, dalla stessa Venezia e, a
partire dal secondo dopoguerra, dalle varie regioni italiane, è da inserirsi
nel più vasto contesto del lancio del porto industriale di Venezia negli anni
venti, che rappresentò una sensibile spinta propulsiva ai meccanismi della
modernizzazione nazionale. La massiccia immigrazione si protrasse senza sosta
nei decenni successivi, stimolando una prorompente crescita sia economica che
edilizia, ragione non solo di una spaccatura nell'estetica del paesaggio
preesistente, ma soprattutto di una parallela e più grave rottura sociale con
effetti devastanti. Distrutti molti degli edifici d'importanza storica,
privata dei valori di sito di terraferma dedito a una tradizione commerciale
basata sulla comunicazione lungo le vie d'acqua, Mestre ha conosciuto una
crescita carente di una seria regolamentazione che ne ha profondamente
minato la "personalità". Appare,
quindi, comprensibile che individuare un itinerario turistico attraverso la
città sia alquanto difficile, data l'evidente scarsità di scorci paesaggistici
e l'ancor troppo debole valorizzazione dei residui del patrimonio naturalistico
e storico‑artistico. E neppure sorprenderebbe che un simile intento
facesse sorridere persino i residenti, rassegnati ad accogliere visitatori
occasionali e distratti dalla vicina Venezia. Dovendo poi rivolgersi all'acqua,
sacrificata alle necessità della modernità tecnologica e oggi quasi
invisibile nelle aree centrali, proporre un percorso che possa in qualche modo
attrarre il viaggiatore sembra ancor più improbabile. Tuttavia, una specie di
approccio itinerante si può recuperare nel momento in cui l'obiettivo non è più
tanto quello di identificare delle unità ambientali di pregio paesaggistico o
artistico, quanto di far apprezzare il luogo attraver~ so uno sguardo alla
memoria acquatica, storicamente importante e pesantemente avvilita. L'idea è,
quindi, di rintracciare i caratteri dell'ideologia ambientale di un recente
passato locale con un sincero senso dell'acqua, attingendo non solo dal vasto
apparato di fonti documentarie scientifiche, ma anche da testimonianze artistiche
quali cartoline e iconografie letterarie. Può
giovare a questo punto soffermarsi sulla tipologia del turista a cui si
rivolge questo itinerario: si è voluto definirlo “leggero", aggettivo
che qualifica chi, non assetato di cultura nozionistica da immagazzinare ad ogni
costo, mostra invece una sorta di stupore verso la realtà, indispensabile per
aprirsi a tutti quegli stimoli che aiutano a comprendere l'intima essenza della
quotidianità territoriale. Il suo viaggio è, dunque, un transitare
attraverso il luogo scoprendo «quei momenti di vita intensa che segnano la
memoria, una ricerca cioè di antichi significati e contenuti culturali
costituenti un'appartenenza e identità territoriali. L'esplorazione
del caso mestrino ci darà l'opportunità di elaborare alcune considerazioni:
per prima cosa, constateremo come la cancellazione su vasta scala dei caratteri
di paesaggio rurale di entroterra ricco di corsi d'acqua, ha originato un
pericoloso smarrimento dell'identità del luogo, provocando un allarmante
disorientamento della residenza che "si perde" in un ambito privato
dei suoi tratti tradizionali, e "perde" il controllo del territorio;
in seconda istanza, che Mestre è stata una scelta illogica, o meglio una scelta
che ha seguito la logica opportunistica delle speculazioni economiche; infine,
sarà individuato un recente e importantissimo risveglio della coscienza territoriale,
che rappresenta la migliore risposta all'inerzia del passato e una promettente
opportunità di recupero e rivitalizzazione del valore culturale dellaCittà2. Il
valore dell'acqua nella città preindustriale L'esistenza
di una struttura urbana caratterizzata dalla presenza di numerosi corsi d'acqua
distingueva la vita economica e relazionale di Mestre prima dei grandi
cambiamenti legati allo sviluppo dell'area industriale del porto di Venezia
(Porto Marghera). Ed è proprio dall'acqua che vogliamo partire nel nostro
percorso d'indagine sulla realtà urbana attraverso il periodo delle sue più
evidenti metamorfosi morfologiche avvenute in fasi successive durante tutto il
Novecento, e con maggiore intensità a partire dagli anni venti, quando Marghera
si insediò nel panorama della neonata industria nazionale. Il fluire del
sentiero liquido ci con poi fino al presente e ai dibattiti sulle potenzialità
future di una realtà, emblema della modernità, sorta, anzi “risorta", a
metà del secolo troppo velocemente, e contraddistinta da un'attuale profonda
contraddizione tra il suo aspetto estetico, frutto di un'incontrollata euforia
edificatoria, e la nuova coscienza territoriale del cittadino dell'era
postindustriale, con la sua pressante necessità di appartenenza. Da
alcune interviste a personaggi locali, e dall'analisi delle fonti documentarie a
nostra disposizione, si scopre che Mestre ai primi del Novecento era un borgo
tranquillo con vocazione agricola, e con una parallela attività commerciale che
aveva luogo per lo più 1ungo il tragitto lagunare che la collegava con Venezia.
L'acqua
era un marchio territoriale predominante nella città solcata dal fiume
Marzenego che scorreva nelle attuali riviera xx Settembre, via Poerio ‑
ramo delle Muneghe ‑ via San
Girolamo attraverso il canale omonimo; si trovava nel canal Salso, la cui
testata si protraeva quasi fino all'altezza dell'odierno edifici centro
"Alle Barche" ‑ ex Coin ‑ in piazza xxvii ottobre. Era
inoltre presente nelle aree periferiche della città, dalle numerose ville
spesso dotate di laghetti e la realtà della gronda lagunare, ai fossati che
circondavano le fortificazioni esterne. Quest'immagine urbana assai distante da
quella odierna, traspare inoltre da tutte quelle rappresentazioni iconografiche
dell'epoca preindustriale che mostrano un insediamento rurale con un esiguo
numero di abitanti, un assetto naturale in buone condizioni, e un ricco
patrimonio acquatico oggi scomparso. I
prodromi della transizione industriale si manifestarono già nel secolo scorso,
a partire dal 1842, con la costruzione
della ferrovia, un manufatto che incise pesantemente sul destino dello sviluppo
della città. Nella
toponomastica ottocentesca, l'apparire di un segno così dominante quale
l'infrastruttura ferroviaria fece presagire un pericolo incombente sulle a
economiche fino a quel momento legate ai movimenti lungo il canal Salso, la via
che consentiva il collegamento lagunare con Venezia. In questo periodo non si
poteva ancora parlare di sviluppo nei termini di quanto si sarebbe manifestato
dagli anni venti in poi, bensì di una sorta di proto‑industria,
localizzata proprio a ridosso del canal Salso, che ammontava a una ventina di
esercizi nel solo distretto di Mestre3. Le prime trasformazioni non toccarono,
comunque, in modo sostanziale la struttura urbana che subì una prima
espansione estensiva tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento. In
tale periodo ebbe luogo la costruzione dell'acquedotto, attuata in varie fasi
dal 1896 al 1912, che consentì di emungere l'acqua dallo Zero all'altezza di
Zero Branco. Con l'acquedotto si assistette alla creazione di un marchio
territoriale assai potente, espressione di un nuovo controllo sul territorio e,
in modo particolare, sull'acqua. Il
fascino benefico dell'elemento si unì a inedite possibilità tecnologiche,
contribuendo così a rendere ancora più saldo il suo atavico legame con gli
abitanti. Non
è un caso, quindi, che l'entusiasmo per il manufatto promosse un rinnovato
amore per l'acqua, come mai prima considerata "affidabile amica",
perché utilizzata al massimo delle sue potenzialità a esclusivo vantaggio
dell'uomo. Eloquente risulta a tal riguardo l'iconografia dell'epoca che
nell'opuscolo pubblicato in occasione dell'inaugurazione dell'acquedotto
presenta i due monumenti simbolo della tradizione storica locale, la Torre
dell'Orologio e la chiesa di San Lorenzo, sullo sfondo promettente di fumanti
ciminiere, anticipatrici di un sicuro benessere futuro. Se l'acqua si manifestò
felice connubio fra tecnologia umana e natura, nel paradosso del primo Novecento
si insinuarono altri propositi destabilizzanti l'esistente rapporto tra uomo e
ambiente. Si profilarono, infatti, in questi anni i progetti di copertura del
Marzenego e canal Salso che, in fasi successive e a singhiozzo, si conclusero
posteriormente al secondo conflitto mondiale. Comunque, ancora nei primi anni
del secolo attuale: Ci
sono cartoline che vengono proposte per chi avesse voluto inviare un saluto da
Mestre. Vi si scorgono alcune grosse barche ormeggiate ai lati di un canale,
chiuso da una riva munita di rampe di approdo ed attorniato da costruzioni che
si rifanno a moduli consueti nei paesi della campagna veneziana: Una teoria eli
case basse munite di ampi portici di piccole finestre nel sotto tetto, con ogni
probabilità adibito a granaio. Sulla riva: botti, sacchi e cassette pronte
all'imbarco e in lontananza l'immagine rassicurante della torre. La
testata del canal Salso […] punta terminale dell'antica Cava Gradeniga, aperta
verso la metà del XIV secolo, testa di ponte del traffico merci e passeggeri
dalla terraferma verso Venezia e viceversa. La
ricchezza delle vie d'acqua di Mestre e il fascino che esse esercitavano sulla
popolazione e produzione iconica dell'immaginario collettivo nel periodo proto
industriale e durante il primo stadio della più prorompente trasformazione,
costituiscono un ricordo ancor vivo in alcuni abitanti appartenenti alle
generazioni passate: «dentro nei fossi ghe jera del bel acua che cresseva e
calava, ghe jera pesce e ghe jera quest rose, niffee, se ghe diseva,,. Ed
è ancora l'acqua del ricordo la compagna di giochi prediletta da molti bambini
che, ingegneri in erba, costruivano le prime traballanti dighe dei giochi
infantili per poi tuffarsi nei canali per prolungare il momento ludico. Essa
appare una sostanza fondante del paesaggio, espressione concreta del corpo urbano e della sua anima.. In
un simile contesto fu elemento che un legò gli abitanti al territorio, ne
promosse la vita relazionale. Fu uno dei simboli più forti, presente nelle
mille sfumature del variegato tessuto cittadino e soprattutto, presente nella
mente dei residenti che in essa si identificavano, riflettevano, completavano. Eutanasia
delle acque e nascita di un "non-luogo" Proseguendo
lungo il tracciato dedaleo della storia delle vie d'acqua di Mestre o, per
meglio dire, da ora in avanti, con la storia della loro fine, vogliamo
sottolineare quanto questa sia legata allo sviluppo del polo industriale di
Venezia, a partire dagli anni venti. Con 1a creazione di Porto Marghera,
infatti, Mestre sacrificò 1e sue vocazioni tradizionali, quella agricola e
quella commerciale, all'industria, anch'essa paradossalmente legata all'acqua. Di
fatto Porto Marghera, allora meglio conosciuto come porto di Venezia, fu il
primo esempio nazionale di industria costruita su un porto e, quindi sull'acqua. In
quanto città adiacente al porto, Mestre divenne, assieme a Venezia, parte
integrante del progetto che chiameremo Iancio della Grande Venezia",
attuato grazie alla disponibilità del grande capitale, cioè dei finanziatnenti
erogati da solidi istituti di credito, assicurazioni e imprenditorie varie, e
coordinato da Giuseppe Volpi, Vittorio Cini e Achille Gaggia. Il piano degli
industriali, giustificato dall'alibi di voler risollevare le sorti della gloriosa
Venezia decadente, ne prevedeva il lancio com merciale
attraverso una pubblicistica che intendeva promuoverla come luogo artistico,
ricco delle tradizionali bellezze a cui deve la propria notorietà, ma anche al
passo con i tempi grazie alla nouvelle
culture che essa si dimostrò capace di proporre con l'istituzione di
associazioni culturali di fama internazionale quali, ad esempio, la Biennale,
Ca' Pesaro, Mostra del Cinema, che raggrupparono attorno a sé le più
stimolanti forze avanguardiste. Ma
Venezia per gli ideatori di questo progetto poteva anche, e soprattutto,
divenire un efficiente polo commerciale che soddisfacesse le finalità delle
spinte capitalistiche del periodo. Non
volendo entrare nel merito delle motivazioni all'origine della creazione del
porto industriale di Venezia, ciò che si intende qui sott lineare è che, da un
certo momento in poi, il destino Mestre fu dirottato dal fenomeno Marghera e per
oltre mezzo secolo le sorti delle due realtà seguirono percorsi paralleli. Mestre
dovette quindi cambiare, trasformarsi per servire la sconosciuta funzione
industriale, migliorare la viabilità per agevolare il pendolarismo verso
Marghera, risolvere alcune più vecchie questioni di carattere igenico‑sanitario
e favorire l'ampliamento dei terreni edificabili per accogliere una sempre
crescente popolazione. Inserita
nel progetto di commercializzazione della Grande Venezia, si vide inoltre
costretta a barattare la sua identità di cittadina rurale, divenendo un
originale «fenomeno urbano» per la «rapidità della sua crescita e
maturazione: un fenomeno recente e decisamente inconsueto nel panorama
europeo”. E’
in questa veste che comparve per la prima volta nel contesto nazionale e
internazionale, rivelandosi «una delle maggiori articolazioni della rete urbana
regionale», e la sua realtà venne interpretata da punti di vista molteplici ed
eterogenei che la definirono «necessaria espansione di Venezia”oppure,
esaltandone la funzionalità economica, addirittura una «sostituzione di
Venezia». A
tanta euforia corrispose, nondimeno, la frettolosa abnegazione dei pianificatori;
nonostante alcuni iniziali tentativi di avviare lo sviluppo edilizio in modo
strutturato a nord della ferrovia, escludendo Marghera e i comuni periferici,
si innescò, soprattutto a partire dagli anni cinquanta, una crescita urbana
illogica, caratterizzata dall'assenza di coordinamento tra i diversi interventi.
Mestre
fu così rimodellata in modo da aderire alla perfezione alla tipica
iconografia orrifica della conurbazione moderna, e il suo nuovo profilo vede i
vecchi edifici storici sostituiti da costruzioni male amalgamate, una scadente
edilizia popolare, e tutti quegli esempi risultato di una gestione malsana
riportati dagli innumerevoli studi sulla sua evoluzione. Tale
repentina trasformazione è incisivamente colta proprio attraverso una visione
prospettica focalizzata sulle vie d'acqua: quasi come se la secolare città
anfibia avesse voluto, o dovuto, nascondere la sua personalità, «sembra
infatti che Mestre abbia avuto vergogna dell'acqua [..nascondendo i percorsi
interni … riducendoli a cloache», operando il tombinamento del rio San
Girolamo prima del secondo conflitto mondiale, del ramo delle Monache e della
riviera xx Settembre negli anni cinquanta, la distruzione del parco di villa
Ponci e dei suoi laghetti, la riduzione del canal Salso e la più recente
bonifica dell'area della Bissuola con la parallela sparizione di molti fossi. L'allontanarsi
dall'acqua, il perdere definitivamente i connotati di cittadina anfibia per
assumere le sembianze di efficiente città di terraferma, si configurò
nell'inevitabile senso di estraniamento dei residenti, proiettati in una
dimensione esistenziale, e primamente territoriale, del tutto nuova9, ormai
privata dei secolari legami con un passato che il fermento modernista si era
premurato di cancellare. Possiamo individuare attraverso l'eutanasia delle vie
d'acqua l'inizio della nuova Mestre, una realtà che debuttò sul palcoscenico
nazionale e internazionale "comparendo" come città, ottimo emblema
dell'esaltazione sviluppista, e "scomparendo" come luogo storico dal
ricco passato, in cui rivestiva un'altrettanto importante posizione centrale
basata sul canal Salso, quale punto della terraferma da cui partiva ogni
attraversamento sulla laguna. In
questo marasma culturale‑territoriale è nuovamente un residente che ci
racconta con mordace sarcasmo, a mezzo di un divertente scherzo letterario, il
drammatico esito dello spaesamento e del forzato radicamento degli abitanti al
contatto con l'incoerenza di marchi paesaggistici ormai stravolti, che
costituiscono a tutt'oggi i punti di maggior riferimento nel tessuto urbano10, e
tra i quali è davvero agevole constatare la preminenza dei residui dei vecchi
segni d'acqua: Il
primo modo nel quale si instilla l'illusione [di vivere a Mestre, una città di
cui si è convinti, a torto, dell'esistenzal consiste nella reiterazione di usi
linguistici, e più precisamente nell'uso reiterato di enfatizzazioni e di
iperboli. Troviamo
infatti una riviera xx Settembre ove non c'è traccia né di fiume né di lungo
fiume, una piazza Carpenedo per intendere uno slargo stradale, un parco Ponci
dove non c'è un solo filo d'erba, una piazza Barche dove non si vedono né
piazza né tanto meno barche, una via Torre Belfredo dove non c'è ombra alcuna
di torri, un Municipio dove non si riunisce mai consiglio comunale, un ponte
della Campana dove, per quanto si giri lo sguardo non c'è modo di scorgere
nemmeno in lontananza né ponti né fiumi né campane [ ... ]. Occorre precisare
che questi modi linguistici sarebbero prontamente irrisi da qualsiasi adulto
dotato di buon senso, soprattutto se proveniente da altre località, e infatti
il segreto del loro successo sta nel fatto che tali usi vengono instillati nei
bambini in età prescolare e fin dalla tenera infanzia. <Mamma, dove
siamo?>‑Siamo al parco Ponci, Giuseppino», e dinanzi ai fondati dubbi
del bambino, che non è ancora perduto ai guizzi della ragione: «Prova a dire:
parco Ponci, parco Ponci», fino a che il bambino sarà un po' alla volta
indotto a credere che a tutti questi nomi corrispondano altrettanti luoghi e che
essi nell'insieme esprimano realmente la manifestazione di una città chiamata
Mestre: «Manima, dove abitiamo noi?» ~1o sai che stiamo a Mestre, Giiiseppino»,
e un po' alla volta il bambino, che pure non è mona e non vede né parco né
riviera, si abituerà a sopprimere ogni ragionevole dubbio e riuscirà a dire
con sicurezza e con sguardo sereno «parco Ponci,> senza pensare ad un parco,
o <riviera xx Settembre,> senza pensare a un lungo fiume'
[Brunello 1990, pp 35-35]. Attraverso
questa insolita visione prospettica di un bambino immaginario, dall'interno di
una città umiliata da progressivi interventi di un'indecente pianificazione,
incarnata nella presenza ingombrante di un'estesa cementificazione, ci troviamo
di fronte a un'ironica ma assai realistica costruzione della mappa mentale del
cittadino mestrino, un percorso tormentato che racchiude in sé l'inquietante
tristezza di una mutilazione. Il
senso del luogo si nasconde nel dettaglio: il
"ritorno degli degli dei” nella nuova coscienza territoriale Il
messaggio senza senso che la città trasmette, incongruente,
destabilizzante per ogni cittadino che, come Giuseppino, si ritrova nel mezzo
dei segni deliranti di un contesto seriamente compromesso, non può che
frastornare l'abitante, danneggiandolo, procurandogli un pericoloso
disorientamento. Ciò nonostante, anche nel travagliato contorno di Mestre, si
registra un fenomeno tipico di molti ambienti urbani, per il quale la città
pare a volte ritrovare una sua magia, un nuovo spiraglio di possibilità
esistenziale data da uomini, situazioni, incontri, scambi, ore e attimi di
grande poeticità. E’
questo l'attimo del risveglio culturale, la nuova presa di possesso della facoltà
dell'abitare, la risposta più vitale a ogni tentativo di cancellare il senso
dei luoghi. L'abitare,
quale “facoltà umana [ ... ], abilità acquisita, costruita su di una
predisposizione biologica [ ...] ma elaborata culturalmente» e «condivisa con
una società [ ... ] può essere lobotomizzata [ ... ] ma non soppressa del
tutto» e «rispunta fuori, ridefinisce lo spazio anchìe il più squallido”
[La Cecla 1988, p. 76] E
di certo rispunta fuori a Mestre insinuandosi nel tessuto urbano con grande
esuberanza, invadendo con proposte di miglioramento la stampa locale,
promuovendo la pubblicazione di una serie di libri sulla Città, incoraggiando
incontri culturali, stimolando dibattiti, discussioni, manifestazioni e
soprattutto stimolando l'abitante. Di
qui una miriade di prospettive che insistono su una riqualificazione urbana che
rifletta sulle istanze di salvaguardia del patrimonio ambientale e del retaggio
storico. Si
va da suggerimenti che risollevano prepotentemente la questione del recupero
della valorizzazione dell'assetto idrogeologico: fiumi, canali, gronda lagunare,
mulini; ai propositi per la prossima creazione del Parco di San Giuliano, il
parco della laguna; al recupero e alla riqualificazione della prima zona
industriale di Marghera con la fondazione di un parco
scientifico‑tecnologico; al progetto di riforestazione di 50 ettari di
terreno per ricreare il Bosco di Mestre; all'interesse per la ricerca
archeologica, gli edifici di valore storico, le case coloniche, le ville,
l'archeologia industriale, soprattutto quella lungo il canal Salso, esistente
prima della nascita di Porto Marghera. Si
tratta di un'attenzione storico-ambientale non feticista, bensì attualizzata
dalla vitalità del presente e dalle proiezioni per il futuro della città, una
sorta di recupero del passato, di ciò che di esso rimane, reso dinamico
dall'attivismo di un abitante più consapevole del valore del territorio e della
sua storia, spesso eclissata dalle incoerenti vestigia della modernità, ma
sempre latente e pulsante. In un tale fermento, in quest'operazione colossale di
recupero in cui «Mestre rischia
di diventare una bella città», non si devono tralasciare gli studi delle
periferie, e qui si intendono sia
le aree marginali, che quegli esempi urbanistici scadenti che, seppure centrali,
hanno contribuito ad alimentare la popolare metafora di "Mestre-città-periferia",
spesso obliterati perché condannabili per la loro estetica. Si tratta di capire
questo paesaggio come un unicum nell'interezza del suo rapporto con gli individui,
di sviluppare una partecipazione
attenta, capace di farcelo vedere con tutti i sensi, di interpretarlo con
sensibilità, risolvendone giorno per giorno i problemi della quotidianità. La
nostra proposta è, dunque, di partire dai "dettagli", come nel caso
in questione si è fatto per il patrimonio acquatico, un bene in passato
considerato solo nei termini di ostacolo da neutralizzare, ma che oggi si vede
capace di ridare senso al territorio, ritrovarne l'identità, profilandosi
prezioso serbatoio di valori culturali e per tale motivo ancora, A cura di Maria de Fanis e Caterina Fiorentini Silis,
annali di civiltà dell’acqua, 1, 1999
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