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Questa volta sono
soddisfatto! Silia, la sanpierota che ha sostituito il
mio topo Risorta (ma non nel cuore: lì stanno assieme),
nel Trofeo Nuti mi ha dato le soddisfazioni che
speravo, e anzi alla fine mi è anche rimasto un po' di
amaro in bocca per il pur buono decimo posto assoluto
finale (ahimè, solo quarto di categoria...).
L'ho varata il 18 di gennaio nello squero dei fratelli
Vidal di Burano, su mio progetto tradotto poi sulla
carta con l'insostituibile aiuto di Renzo Giuponi. Avevo
in testa delle proporzioni, maturate dopo aver misurato
assieme a Lia, la mia compagna, decine e decine di
sanpierote: che Dio le renda merito per la sua pazienza.
Ero andato da Piero Menetto, a Pellestrina, ma ero
rimasto poco convinto: credo che le sue linee non siano
più quelle di un tempo, perché la committenza per lo
più motorizzata lo ha portato via via a fare barche
sempre più tozze. E la vaghezza delle sue risposte alle
mie domande (a una tal lunghezza, che larghezza
corrisponde? e la larghezza massima a che punto cade
della barca? e coincide con la massima larghezza del
fondo? E qual è la progressione del cavallino?) mi ha
spinto a scegliere un'altra strada.
Nel frattempo, avevo trovato una vecchia sanpierota che
all'incirca, seppur piccolina, rispecchiava quel che
avevo in testa: è quella grigio - celestina ormeggiata
nel rio delle Gorne, nei pressi della Porta dei Leoni
dell'Arsenale. Era di un vecchio pescatore di
Pellestrina, morto qualche anno fa, Mario Pazienza, e
molti a Castello ne ricordavano le prestazioni,
soprattutto a remi. Grazie al mio amico Palmiro Fongher
ne ho rintracciato i figli, e Corino, uno di questi, mi
ha prestato la sanpierota, per prenderne tutte le
misure. Cosa che ho fatto nello squero Tramontin, con
l'aiuto di Nedis e Roberto.
A quel punto, le ho sviluppate per portare la sanpierota
da 6 metri ai 6.70 che avevo in mente, e ho apportato
alcune modifiche: ho allargato leggermente la maistra di
poppa, per dare più stabilità, ho abbassato di
qualcosa il cavallino a poppa, per dare più portanza,
ho dato una freccia di un centimetro e mezzo alle piane,
arrotondandole perché credo che a vela sia più
produttivo, ho dato una linea un po' diversa all'opera
morta, anche se poi in sede di cantiere abbiamo
sbagliato: la prua è venuta più alta di quanto
avessimo previsto, perché il primo cerchio, una volta
impostato, ci è parso avere una linea più elegante. A
terra, ma in acqua è un'altra cosa! Ora, però, quella
prua così orgogliosa comincia a piacermi, e col moto
ondoso, credetemi, torna davvero buona, mentre non
patisce il vento.
Coi Vidal, poi, è stato un incontro piacevolissimo:
sono tre fratelli appassionati del loro lavoro, e
davvero bravi anche se su certe barche non hanno
tradizione. Ma hanno testa e mestiere, amano la
costruzione in legno, hanno capito che il nostro può
anche essere un mercato, e ci hanno dato dentro con
rovere e larice. Alla fine, il risultato mi ha
soddisfatto.
Inizialmente, invece, ero rimasto un po' deluso dalle
prestazioni veliche, anche se ora credo di poter dire
che andavano imputate non alla barca ma alla mia nulla
esperienza sulle sanpierote. Topi e sanpierote sono due
cose diverse e, senza contare il poco tempo che ho avuto
per cercare di mettere a segno le manovre (con una bella
vela di Gianni Naccari, di cui prima dell'ultima regata
e su suo consiglio ho modificato l'inferitura), ci ho
messo un po' a capire le differenze, almeno credo...
Non so se dico un'eresia, ma la sanpierota richiede un
equipaggio. Mi spiego: in topo potevo andare anche da
solo, alla peggio rinunciando alla trinchetta o al
fiocco, ma in sanpierota ciò è molto più
penalizzante, perché il peso del solo timoniere in una
barca molto larga al centro e comunque stretta a poppa
non compensa la forza del vento. La barca, soprattutto
di bolina, si corica molto e cammina meno di quanto
potrebbe, senza contare la necessità di sventare o di
terzarolare.
Domenica ho gareggiato proprio così, e per questo mi è
rimasto un po' di amaro in bocca. Sabato sera
l'equipaggio era di tre: io, Lia, mio figlio Nicolò con
cui da tempo faccio coppia fissa. La mattina della
regata, invece, mi hanno entrambi mollato come una spia:
malesseri vari. E io, mesto, mi sono avviato sul campo
di regata, e per di più a remi, alla valesana, perché
tre settimane fa il motore ha quasi tirato gli ultimi.
Fossimo stati in tre, sono sicuro che sarei andato
meglio: quantomeno avrei potuto tirare su il fiocco,
mentre ho fatto tutta la regata con la sola randa.
In partenza mi sono accorto subito che la barca andava:
avevo alzato la vela modificando l'attacco della patta
di bolina e avevo spostato il turbante, e stavo dietro a
Pietro Fabris senza troppa difficoltà. Ho perso strada
solo sul primo lungo bordo verso Murano, per le ragioni
che dicevo prima e perché ho patito molto le onde, ma
in poppa ho recuperato anche se non potevo aprire bene
la vela perché, avendo messo un secondo bozzello
doppio, la scotta mi era diventata corta. Ma sulla
bolina del secondo triangolo ho pensato di lasciar
correre di più la barca, poggiando un po', e credo di
aver fatto bene. Se ho sbagliato, è perché ho tirato
troppo lungo il bordo, come Borin di Mattiello. Mi era
parso che chi aveva virato prima non riuscisse ad andare
in boa (da lontano vedevo bene Fabris e Marmotta), ma
non avevo calcolato che alla fine la dosana li avrebbe
aiutati. Alla fine, invece che una bolina ho fatto un
bel lasco, anche qui sventando ogni spesso, ma Silia
filava che era un piacere.
Alla boa tre ho girato nono, e sull'ultima poppa mi è
parso d'aver guadagnato qualcosa su chi era avanti,
anche se alla fine Salsola di Barbini mi ha passato.
Solo alla fine abbiamo entrambi capito di essere in
categorie diverse, e mi sono rilassato, ma ho sbagliato
perchè poi Barbini ha finito per passare Soravento, e
se avessi tenuto duro magari l'avrei fatto anch'io,
finendo terzo al posto di Roberto Ginetto.
Silvio Testa
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